Questa storia, che ha interessato principalmente mia moglie e me, ha numerosi testimoni oculari.

Alle 16,30 del 12 dicembre 2016, mia moglie ritornava a casa in ambulanza dall’Ospedale di Treviso con la seguente diagnosi: “Severa disabilità con completa dipendenza in tutte le ADL primarie e tetraplegia, insufficienza respiratoria cronica (ventilazione assistita notturna per tracheostomia) e disfagia, in Polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica (CIDP). In parole povere, completamente paralizzata e a serio rischio di vita; le uniche cose che la contraddistinguevano in positivo erano l’essere perfettamente cosciente, avere vista e udito funzionanti.

In pratica, dopo otto mesi di degenza ospedaliera, di cui 45 giorni nel reparto rianimazione, l’avevano mandata a casa perché non c’erano speranze di vita. È da sottolineare che, pur rimanendo immobile, è stata cosciente per tutto il periodo della malattia. Probabilmente è stata questa circostanza che ha consigliato ai medici di insistere con le cure.

Da aggiungere che durante la degenza, l’11 novembre, anniversario del nostro Matrimonio, mentre io e mio figlio eravamo con lei in Ospedale vennero a “visitarci” a casa i ladri. Oltre a mettere tutto a soqquadro, non ci fecero danni rilevanti, ma io mi sentii perso.  

Prima di elencare tutti i sussidi che le furono assegnati a casa, devo premettere che non ho avuto alcun trattamento preferenziale che ci abbia potuto agevolare, sia presso l’Ospedale di Treviso sia a casa. Tutto si è svolto secondo gli encomiabili canoni della Unità Sanitaria Trevigiana e del relativo personale medico, infermieristico e sociosanitario. Ci furono consegnati: a) letto di tipo ospedaliero e materasso antidecubito; b) ventilatore per respirazione con doppio per emergenza; c) bombola di ossigeno con doppio per emergenza; d) “macchina per la tosse” e doppio per emergenza; e) macchina e relativi flaconi per la nutrizione enterale; f) poltrona con ruote e cinture di sicurezza, azionabile solo da un assistente; g) sollevatore meccanico per alzarla dal letto alla poltrona e viceversa; h) trattorino meccanico per trasportare la sedia con il malato dal piano superiore a quello inferiore (otto gradini); pulsossimetro; i) tutta la terapia farmacologica che avrebbe dovuto assumere tempo per tempo. Altri presidi li avevamo già (per la misurazione della pressione) oppure li predisposi appositamente. Un mese prima delle dimissioni, poi, mi fecero presenziare a tutte le procedure necessarie per assisterla e mi furono fornite istruzioni scritte pe i diversi apparati. Ad oggi è più di un anno che abbiamo provveduto a restituire tutto.

Penso che la descrizione fatta sia sufficiente a inquadrare la gravità della situazione. Aggiungo solo che durante la degenza ci furono due giorni terribili, durante i quali chiamai Enrico Gizzi, a Battipaglia, per sapere come avrei dovuto regolarmi in caso di decesso. Circostanza che, ricordo benissimo, Enrico scongiurò immediatamente con sincera amicizia prima di darmi le informazioni necessarie.

Il 10 aprile 2017, dopo quattro mesi che era a casa, mia moglie fece i suoi primi dieci passi assistita dalla fisioterapista Renata, dopo i quali iniziò una lenta e progressiva ripresa. Il 23 agosto successivo, quando era da poco migliorata, per rendersi comunque utile in qualche faccenda, si procurò una frattura al polso che le fu ingessato per circa 30 giorni. Sette giorni dopo ci recammo in ospedale per la radiografia di controllo. Euforici per il risultato positivo, tornammo a casa e, per salutare una persona, cademmo rovinosamente tutti e due, lei in sedia a rotelle e io sopra di lei. Per Grazia di Dio, gli ulteriori controlli radiografici non evidenziarono alcun problema.

L’otto ottobre 2017, domenica, dopo circa diciotto mesi, per la prima volta entrammo in Chiesa per la Messa della mattina senza usare la sedia a rotelle. Continuarono poi nel tempo la ripresa, buona ma non completa, le terapie farmacologiche e i controlli periodici relativi alla sua patologia.

Tutto ciò per chiarire che se mi sentite parlare di Dio e del credere fermamente in Dio, ho un motivo in più per farlo. Non penso si sia trattato di un miracolo, ma sicuramente c’è stata la mano dall’alto nell’accompagnarci in questa gravosa esperienza. Se di miracolo devo parlare, mi devo riferire all’atteggiamento assunto da mia moglie in questo frangente: salvo le poche occasioni in cui gli mancò il respiro o avvertì dolori per qualche motivo specifico, non si lamentò mai. Non era rassegnazione; lei conviveva con la sua precarietà come si trattasse di una normale situazione di attesa. D’altro canto io, che passai con lei circa dieci ore al giorno per tutto il periodo della degenza, salvo quelle occasioni in cui la situazione sembrava irrimediabilmente pregiudicarsi, ero altrettanto sereno, arrivando delle volte persino a scherzare nel reparto insieme agli altri degenti.

Pregavo? Sì pregavo, ma non per la sua guarigione. Per questo mi affidai a parenti e amici, io no. Già altre volte mi era capitato di pregare per persone che poi avevo visto morire. Ero certo che a Dio nulla è impossibile ma, senza chiedere niente, continuavo a ringraziarLo e ad affidarmi a Lui. Recitavo la Coroncina della Divina Misericordia, chiesi preghiere alla Madonna, a Lourdes, invocammo l’intercessione dei Santi, Padre Pio e altri, e della Beata Madre Speranza, di Collevalenza.

In questa storia io e mia moglie abbiamo oltrepassato, e di molto, quelle che erano le nostre possibilità psico-fisiche. Ecco perché ringrazio continuamente Dio e non voglio sentir parlare di null’altro che possa salvare l’umanità, all’infuori di Gesù di Nazareth. Che Dio, poi, non lo si trovi sempre nelle Chiese o nelle singole persone è una Sua caratteristica peculiare: “Lo Spirito soffia dove vuole” e quando vuole! 

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